Prefazione di Giuseppe Saragat al libro “Sandro Pertini, due condanne, sei evasioni” – 1970
Questo drammatico excursus attraverso i fascicoli processuali e i documenti dell’OVRA relativi alla lunga battaglia antifascista di Sandro Pertini, non ha bisogno di presentazione: si commenta da sé. Vorrei piuttosto aggiungere a questi documenti una mia testimonianza: quella di detenuto con Pertini nel “braccio” tedesco di Regina Coeli a Roma.
Si rifletta che da quel “braccio” si usciva in un modo solo: per andare di fronte al plotone di esecuzione. Qualche volta si poteva uscire gia morti per le percosse subite dagli aguzzini durante gli interrogatori. Se Pertini ed io ne siamo usciti miracolosamente in un terzo modo – e fu caso unico – e faccenda che non riguarda né Pertini né me, ma un gruppo di valorosi partigiani che rischiarono la loro vita per salvare la nostra.
Ma ritorniamo a Pertini.
La cosa di lui che in quella occasione mi colpì maggiormente fu l’autorità che fulmineamente Pertini acquisto nei confronti degli altri detenuti e un pochino anche nei confronti degli aguzzini. Da che cosa derivava quella autorità? Da un complesso di cose apparentemente piccole ma in realtà grandi che rivelavano con un linguaggio inconfutabile il sangue freddo, la generosità, il coraggio.
Pertini si comportava in carcere – e quale carcere! – come se si fosse trovato in casa propria nel periodo più sereno della sua esistenza. Prima di tutto curava l’abbigliamento e il decoro della persona. Chiese ed ottenne subito l’abito del galeotto, sbarazzandosi,di quello civile proprio come un pacifico cittadino che, giunto a casa, butta via la giacca e si mette in vestaglia. Non dimenticherò mai l’eleganza e la sprezzatura di stile con cui portava quel rozzo indumento. Lo portava con l’eleganza con cui il buon conte Sforza portava l’abito di società. Il volto era sempre accuratamente rasato e come riuscisse a ciò me lo chiedo ancor oggi. Tra gente preoccupata e ansiosa della propria sorte, quel curare i piccoli particolari della vita quotidiana, come se la vita fosse al riparo da ogni pericolo, aveva un effetto morale enorme. Era un modo per infondere coraggio proprio come fanno i medici che all’ammalato si mostrano sempre col volto sereno. In questo caso il medico era un condannato a morte anche lui e la sua serenità era coraggio e noncuranza della vita ma una noncuranza dissimulata come se nessun pericolo la minacciasse. Per chi si lasciava abbattere, la sua parola fraterna aveva l’effetto risanatore dell’esempio che viene da chi e più forte e più nobile e che vede più lontano. Attorno a lui l’atmosfera cupa di tragedia incombente si trasformava nell’aspra e virile attesa di coloro che hanno combattuto la loro battaglia e che non temono perché hanno fatto tutto il loro dovere.
L’atmosfera da incubo si trasformava in un’atmosfera di lotta, che nobilitava, rincuorava e, anche se non apriva l’animo alla speranza, lo preparava virilmente alla prova del sacrificio supremo. In breve Pertini era della stoffa di cui sono fatti gli eroi. E un pochino della sua anima si irradiava sugli altri e, anche se non li trasformava tutti in eroi, dava a ciascuno la consapevolezza dell’immensità dell’opera compiuta e della validità del sacrificio. Ho creduto di recare ai documenti di Sei condanne, due evasioni questa testimonianza che, come tutte le testimonianze dei testi in buona fede, “risponde alla verità e nient’altro che alla verità”.
Giuseppe Saragat
Dal Quirinale, nel XXV anniversario della Liberazione.