Al Parlamento Europeo (Strasburgo, 11 giugno 1985)
SANDRO PERTINI
PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
DISCORSI (1978 1985)
AL PARLAMENTO EUROPEO (Strasburgo, 11 giugno 1985)
Signor Presidente,
sono grato a Lei per le gentili espressioni, ed a Voi tutti, Onorevoli membri del Parlamento europeo e Signori rappresentanti delle altre istituzioni comunitarie, per l’affettuosa accoglienza, di cui serberò a lungo nel cuore l’emozione e nella mente il ricordo. Sono lieto dell’opportunità offertami di recarVi di persona la testimonianza della considerazione del popolo italiano per questa Assemblea e per il suo ruolo fondamentale di garanzia e di stimolo degli ideali europei, da svolgersi ancor più in futuro.
E’ la terza volta, durante il mio settennato presidenziale, che dedico un pubblico intervento al tema dell’Unità europea. Il primo nel 1983, all’Assemblea del Consiglio d’Europa, in quest’aula. Il secondo nel 1984 a Losanna, alla Fondazione Coudenhove-Kalergi. Oggi, il terzo, che desidero sia interpretato soprattutto come espressione dei miei profondi convincimenti personali. lo parlo oggi dell’Europa e all’Europa da quel cittadino europeo che sono e sento di essere, da quando nel lontano 1941 fui partecipe della iniziativa federalista del Manifesto di Ventotene. Altiero Spinelli – che oggi con la sua fluente barba sembra un patriarca, il patriarca degli Stati Uniti d’Europa – vero antesignano dell’Unità europea, forse rimpiangerà quell’epoca della nostra giovinezza. Ma tutta la sua vita dimostra che quell’ideale, malgrado il tempo trascorso, non è invecchiato insieme agli uomini, anzi ogni volta risorge e continuerà a farlo sino a tradursi in realtà. Preciso anche che non sono qui per far stato, una volta di più, delle nostre comuni insoddisfazioni per le lentezze del processo di costruzione europea. Che il cammino fosse da percorrere tutto in salita fu del resto evidente quando, con il rigetto della Ced, optammo, nella situazione di allora, per i tempi lunghi di una unificazione economica, da evolvere in politica in una seconda fase; e decidemmo di adottare il metodo del realismo e della gradualità e una “strategia della pazienza”, sia pur con la promessa a noi stessi di non perder mai di vista l’obbiettivo di fondo. Il mio intervento ha soprattutto lo scopo di riàare che, per il processo di costruzione europea, siamo oggi di fronte ad un momento cruciale e ad una svolta critica.
L’importanza di questo passaggio non deve peraltro farci credere che quanto sinora realizzato sia poco. La storia del nostro Continente abbraccia due millenni. Quella della nostra iniziativa comunitaria, circa un quarantennio. Dobbiamo renderci conto della imponenza storica dell’impresa. Di questa, la Cee non è che l’inizio. Per lungo tempo quella del nostro Continente è stata una vicenda di imperi e di assoggettamento di popoli, in seguito di frammentazione nazionale e da ultimo di esaltazione nazionalistica, culminata in carneficina e genocidio, cui s’attaglia la tragica sequenza di Grillparzer: “dall’umanità attraverso la nazionalità sino alla bestialità” (von der Humanitat durch die Nationalitat zur Bestialitat). Non è mai stata – tranne che nel caso della Svizzera – una storia di volontaria aggregazione di popoli. è forse la prima volta nel mondo che Nazioni diverse, ricche di antiche memorie ed a lungo rivali, tentano di unirsi a dimensione continentale non con la forza, ma per libero consenso e nel rispetto delle reciproche peculiarità. Se confrontiamo ciò che oggi siamo con quel che eravamo allora dobbiamo anzi constatare che l’epoca dei conflitti intra-europei, è terminata, che la riconciliazione tra i nostri Paesi è irreversibile, che la ripresa di guerre intestine sarebbe inconcepibile.
Tuttavia il sole della pace – non appena tornato a rifulgere – è impallidito di nuovo, già all’indomani dell’ultimo conflitto. Il mondo, la società civile e l’ordine internazionale hanno subìto, da quarant’anni fa ad oggi, un mutamento profondo, a volte precipitoso. è emersa una coagulazione e contrapposizione di colossi, che trovano qui in Europa la linea di più netta demarcazione. Nei punti più remoti del globo s’agitano “micronazionalismi” in ansia di sviluppo ed in acuta conflittualità. Lo spettro della guerra e l’incubo dell’olocausto nucleare non hanno tardato a riaffacciarsi, e questa volta su tutto il globo; quindi anche per noi in Europa. L’urto degli schieramenti ha ricreato anche qui le divisioni di cui avevamo a lungo sofferto. Un lembo del continente è stato da noi separato. Mutano le basi della civiltà, sia materiale che spirituale, ed i canoni della convivenza. Le società industriali accusano un crescente disagio. Rapido è il logorio di credenze, ideologie, ordinamenti e costumi. Smarrimenti, suggestioni, drammi esistenziali, egoismi e conflitti di interessi e di gruppi rendono affannosa e difficile, a volte vana, la ricerca di nuovi valori. Mentre il mondo è in crisi, la tecnica fa miracoli, unifica il globo, accresce il potere dell’uomo. Ma in pari tempo procede ad una incontenibile moltiplicazione di aspettative di progresso nei popoli in via di sviluppo da un lato e, dall’altro, a brutali eliminazioni e alla conversione in rami secchi di alcune delle fonti tradizionali della prosperità dei Paesi più evoluti. L’effetto è duplice: interdipendenza anzi simbiosi dei destini degli uni e degli altri, e nuovi ostacoli al mantenimento dei ritmi di crescita ed alla realizzazione dei s.ogni di riscatto e di un’esistenza più umana. Tutto ciò alimenta la conflittualità sia nel seno delle nostre società che a livello internazionale.
In una situazione del genere, l’unificazione europea diviene compito urgente. Non suggerisco con ciò di rivedere l’opzione economica e gradualistica di quarant’anni fa, ne penso ad un brusco passaggio alla “strategia dell’impazienza”. Ma non dobbiamo tralasciare l’occasione di riconfermare il primitivo e mai deposto disegno dell’unità politica, cui quella economica era concepita sin dall’inizio come subordinata e strumentale. In definitiva non v’è, allo stato dei fatti, distinzione possibile tra i vari aspetti dell’equazione europea. Ciò che è economico, strategico, culturale e tecnico è anche ed anzitutto politico e postula per tradursi in atto una comune volontà politica. è certo che la volontà politica dovrà scaturire anzitutto dalla nostra consapevolezza. Ma non illudiamoci: in parte sarà anche l’inevitabile derivato della situazione oggettiva che incalza. è vero che anche le visioni più lucide stentano a volte a farsi strada nelle menti ottenebrate degli uomini, per lo più recalcitranti di fronte alla realtà. Ma non c’è bisogno di lunghe elucubrazioni per . comprendere che l’Europa è giunta ad un punto dove – se non la ragione – sarà la forza degli eventi ad imprimerle la spinta risolutiva dell’unità o del fatale declino, che è assediata da richieste, blandizie, pressioni, ricatti e minacce da ogni par.te del mondo e da sfide che potrebbero presto risultare intollerabili, nella sua attuale frammentazione; e che attardarsi in sacri egoismi o in calcoli mèschini o in fragili compromessi, potrebbe rivelarsi domani sterile esercizio.
E’ giunto dunque il momento di agire. Non sarà questa un’azione rivoluzionaria nei metodi, ma negli effetti. Fu ancora il Manifesto di Ventotene ad àare, del resto, che l’Europa unita era l’unica rivoluzione oggi possibile. Per realizzarla, l’apparato tecnicistico in questi anni costruito dovrà senza dubbio rimanere, ma essere d’ora in avanti animato dal soffio di una nuova volontà politica; ed il meccanismo decisionale dovrà comunque esser sottoposto ad una graduale revisione, soprattutto dal basso verso l’alto. Ciò avvicinerà l’Europa ai cittadini e questi a quella. C’è di più: è vero che numerosi problemi sussistono all’interno dei nostri Paesi e che è bene darvi soluzione prima. di unirsi del tutto, anche per la buona ragione che non basta unirsi per risolverli e che l’unione non esime da adeguamenti e aggiustamenti, a volte non indolori. Ma gli sviluppi degli ultimi anni hanno dimostrato che è vero anche il contrario; e che i problemi sono a volte più risolvibili nel quadro europeo che non nell’angusto perimetro nazionale. La “non Europa” ha funzionato per vari settori da freno e da spreco. è lecito concluderne che l’Europa è oggi urgente, non solo per le sfide esterne, che non attendono la soluzione dei nostri problemi nazionali, ma anche per quelle interne, di cui può facilitare il superamento.
Questa duplicità di approccio nazionale ed europeo insieme, vale per quasi tutti i principali problemi oggi sul tappeto. In tema di disoccupazione, non è possibile continuare per strade divergenti, ma dobbiamo creare un “modello europeo” di politica occupazionale che contemperi, senza brutalità ne assistenzialismi, le esigenze di efficienza produttiva e solidarietà sociale, connaturali alla civiltà di questo Continente. Ne sarà possibile sormontare la crisi e assicurare la crescita, se non coordineremo di più le politiche economiche, monetarie e commerciali, se non completeremo il Mercato Comune; se non definiremo una dimensione produttiva europea; se non stabiliremo una vera moneta europea ed un unico mercato finanziario; se non ripristineremo in tal modo le indispensabili condizioni di stabilità per le attività produttive e d’investimento; se non equilibreremo la difesa dell’occupazione con la mobilità del mercato del lavoro -c he più sarà europeo e più sarà flessibile – e con lo sviluppo della tecnologia. Non è possibile rimontare il ritardo tecnologico, se non uniamo i nostri sforzi, in primo luogo nel campo culturale – con I’obiettivo di una scuola europea, unica a tutti i gradi e livelli – e in secondo luogo nella ricerca fondamentale e applicata e nelle tecnologie di punta, secondo gli orientamenti indicati di recente dal Presidente Mitterrand. Quanto ai riflessi della tecnologia sull’occupazione, è vero che esistono; ma è altrettanto esatto che, anche qui, l’Europa può aiutarci in quanto è asso dato che le tecnologie di punta, quelle da svilupparsi in sede comunitaria, creano nuovi posti di lavoro in settori derivati. Ogni “neoluddismo” sarebbe fuori luogo. Quel che occorre è una intensificata formazione professionale.
L’Europa unita è urgente anche nel settore della politica internazionale in senso Iato, dove potrà svolgere un ruolo fondamentale nel campo della sicurezza e della difesa oltre al disarmo ed allo sviluppo. Una volta che l’attuale cooperazione diplomatica sarà divenuta cooperazione politica in senso proprio, l’Europa potrà raccogliere, in termini di credibilità e di influenza politica, i frutti di quel modello di collaborazione nord – sud che, da Yaoundè a Lomè III, è riuscita ad erigere e additare al mondo. Ciò consentirà un più ampio intervento europeo nei problemi economici del Terzo Mondo nel segno dell’interdipendenzà tra crescita e sviluppo, ed anche in quelli politici, nel senso della moderazione e dell’equilibrio, della mediazione e composizione del progresso e della pace. Ciò che facciamo già per alleviare fame e malattie non potrà che esserne più valorizzato.
Ai rafforzamento della pace l’Europa potrà continuare anche nell’ambito delle relazioni est-ovest. L’assunto è chiaro. Se resta semplice assenza di guerra, la pace è recipiente vuoto o dal contenuto incerto. La pace ha una sostanza che è dialogo, fiducia, distensione, intesa, disarmo e, da ultimo, eventuale cooperazione nel quadro di un ordine internazionale legittimato dal consenso. La pace non può basarsi a lungo sull’equilibrio del terrore. è vero che, da quando la bomba è apparsa, la pace dura. Ma questo paradossale esempio di “eterogenesi dei fini”, di un bene assicurato attraverso il male, non offre in realtà sicura spiegazione per l’assenza di guerra in passato, ne serve a garantirla per l’avvenire; e del resto i microconflitti avvenuti ed in atto ovunque nel mondo, al di fuori dello schema classico della grande conflagrazione, continuano a spargere lutti e rovine, nella diuturna incertezza che subentri il peggio. L’equilibrio è anche instabile, a causa delle potenziali “rotture ” tecnologiche. Più che inefficace, è controproducente, in quanto, per rendersi più credibile e dissuadere dalla guerra, non fa che accrescere la terribilità e distruttività delle armi. La pace non può esistere dunque che al di fuori del terrore e al di là di questa spirale negativa. Anche se ciò non fosse possibile, nulla vieta che, al riparo della dissuasione, chi è interessato alla pace lavori per la distenzione e per il controllo o la riduzione degli ordigni di morte sino alla loro totale distruzione.
L’Europa unita – senza assurdi velleitarismi incompatibili con la realtà delle cose, con l’equilibrio delle forze e con la fedeltà agli impegni – può e deve avviare una politica comune di sicurezza e difesa che valga, nel quadro del Patto Atlantico ad accrescerne, da un Iato, la responsabilità, e dall’altro il peso specifico in seno all’Alleanza, l’incidenza nella pianificazione Nato, la partecipazione ai negoziati per il disarmo, in definitiva il contributo al mantenimento dei canali di dialogo e alla propulsione degli sviluppi negoziali, nel segno della impostazione difensiva dell’Alleanza. Più che come polo autonomo, l’Europa unita deve poter contare di più come autentico partner, capace di essere consultato ed ascoltato, senza limitarsi ad una semplice solidarietà passiva, e di far valere anche – se e quando occorra – una eventuale diversità di percezione e interpretazione dei problemi nell’interesse della pace. Un’Europa unita, più influente e più garante della sua stessa sicurezza, non può non essere in pace con tutti e soprattutto con i suoi vicini. Helsinki, per noi, è impegno fermo già oggi; ma diverrebbe ancor più I’architrave e la filosofia del nostro sistema di sicurezza e cooperazione con l’Est ed il versante politico del sistema militare difensivo atlantico. A nessuno sarebbe consentito dubitarne.
Per il raggiungimento di questi obiettivi, l’Europa non ha che un mezzo: procedere verso una più stretta unità. Di recente abbiamo dato, con il terzo storico allargamento in direzione dei due paesei iberici, la prova più convincente della capacità dell’Europa comunitaria di far prevalere ‘nel suo seno, quando voglia, la ragione e la speranza sugli interessi particolari; e la dimostrazione, una volta di più della sua vitalità. Con questo equilibrato accordo, che siamo lieti sia avvenuto nel semestre della nostra Presidenza e che sarà firmato domani, sono poste le premesse per la creazione di un mercato di 320 milioni di abitanti, superiore a quello degli Stati Uniti e doppio di quello giapponese. Per giunta sarà dischiusa all’Europa tutta una gamma di prospettive e possibilità di azione nel continente latino-americano, cui sarà d’ora innanzi offerta una sponda sull’Atlantico oltre a quella sul Pacifico.
Ora sta a noi realizzare il passo successivo del rilancio politico ed istituzionale comunitario. Noi auspichiamo che dal Vertice di Milano esca la decisione di convocare una Conferenza intergovernativa per la redazione di un progetto di Trattato sull’Unione Europea. Il relativo progetto di mandato è stato presentato dalla Presidenza italiana ed è già noto. Non mi soffermerò quindi che su uno solo dei temi sottoposti’ all’istanza milanese: quello dell’ampliamento dei poteri del Parlamento. Con la sua rapida approvazione del progetto Spinelli, quest’ Assemblea ha dimostrato piena consapevolezza della necessità di accelerare la costruzione europea. Non poteva essere altrimenti. Il Parlamento europeo è l’unico organo assembleare plurinazionale eletto da popoli sovrani, oggi a suffragio diretto, ch’e esista nel mondo, dove i raggruppamenti sono basati sugli orientamenti politici e non nazionali. è quindi il garante della democraticità presente e futura del processo di costruzione europea. Una Unione Europea, che intenda tutelare gli stessi valori di democrazia nel mondo, non può continuare ad albergare nel suo seno un Parlamento con poteri dimezzati. I poteri legislativi sottratti ai Parlamenti nazionali sono passati al Consiglio dei Ministri, che è emanazione dei Governi ed assomma anche i poteri esecutivi e di orientamento politico, senza essere responsabile per le materie comunitarie ne verso i Parlamenti nazionali, ne verso il Parlamento europeo stesso. D’altra parte l’azione del Consiglio è frenata dalle divergenze tra le politiche comunitarie nazionali, ieri dieci e domani dodici. Se l’Europa vuole dotarsi degli strumenti adeguati alla elaborazione e formulazione di politiche comuni di lungo raggio e di vasto respiro, secondo il metodo democratico ed in rispondenza alle esigenze dei popoli, ha dunque bisogno di un Parlamento autentico. Il progetto prevede di aggiungere, quindi, ai poteri consultivi, di controllo e di censura di cui l’ Assemblea dispone oggi, altri poteri di codecisione destinati a riequilihrarne la posizione rispetto al Consiglio dei Ministri. Sarebbe bene altresì che si abbandonasse, nelle sessioni del Consiglio dei Ministri, la paralizzante norma dell’unanimità e si adottasse la regola della maggioranza che è la sola a poter assicurare rapidità di decisione e ripresa di slancio sovranazionale.
Il progetto di mandato per la Conferenza sottoposto dalla Presidenza italiana, nelle sue caute formulazioni, non è al cento per cento quello che l’Italia avrebbe desiderato. Ma ciò che importa è che i problemi siano posti senza ambiguità. Noi auspichiamo che sia possibile raccogliere, sulle decisioni da prendere, il massimo dei consensi. L’Europa non cadrà dal cielo, ne verrà creata da una mano invisibile. Sarà modellata dalle forze reali che agiscono all’interno e all’esterno in suo favore e dalla nostra volontà. Milano non sarà forse l’appuntamento con la storia, ma sarà la verifica di questa volontà. Non scoraggiamoci e non cediamo ne all’offensiva ideologica del pragmatismo, ne ai venti di controriforma che, ad ogni salto di qualità, non mancano di levarsi. L’Europa è, sì, irreversibile; ma siamo a metà del guado e dobbiamo andare avanti. Non illudiamoci: occorre fare il più per poter fare il meno. La nostra non è una battaglia di retroguardia, ma per il futuro; è un futuro che urge. Manca il tempo per attendere che l’Unità europea avvenga per coagulo, alla maniera dei ghiacciai alpini o dei banchi corallini.
L’Europa è oggi in stato di divisione e debolezza e può essere, da un momento all’altro, causa e vittima al tempo stesso di una nuova crisi. Come disse Colorni all’ epoca diVentotene, quella per l’Europa è “una battaglia da fare subito”. Nel dopoguerra l’occasione sfuggì ed imboccammo un percorso più lungo. Sinora abbiamo però “interpretato” l’Europa; ora dobbiamo “trasformarla”. L’Europa non è più da scoprire, né da inventare, ma da volere e basta. Pochi giorni fa da questa tribuna il Presidente Reagan ha dichiarato che l’Europa è “un successo morale”. Dobbiamo, io aggiungo, essere anche un successo politico. Se riusciremo, non già a realizzare in un sol giorno, ma a prefiggerci con chiarezza e a volere con fermezza il trapasso dalla sfera economica all’ultraeconomica e dal supermercato ad un embrione di autentica supemazione, avremo questo successo a portata di mano.
A spronarci può servire il ricordo di quel grande moto di popoli che fu la Resistenza, fenomeno – oltre che nazionale – anche europeo. Non conobbe frontiere. Tutti combatterono per la causa comune: la disfatta del nazifascismo ed il trionfo della libertà e della democrazia nel continente. Fu quella l’alba dell’unità d’Europa. Va subito detto, però, che riprendere quel fùone ideale proto-europeista non significa perpetuare la discriminazione morale verso una Germania che è stata e in eterno sarà parte della patria europea. Siamo europei; quindi siamo anche tedeschi.
L’Europa non dimentica il debito di sangue che ha verso gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica: i cittadini americani per la seconda volta varcarono l’oceano e morirono per l’Europa libera, lasciando nel nostro Continente innumeri cimiteri dalle bianche croci a testimonianza del loro generoso sacrificio per noi, per la nostra libertà.
L’Unione Sovietica ha pagato un prezzo di sangue mai pagato in una guerra da una Nazione: venti milioni di morti, Venti milioni di cittadini sovietici caduti anche per la nostra libertà. La vittoria di Stalingrado è stata la Valmy della lotta contro il nazifascismo.
Senza questo nobile ed alto contributo di sangue delle due Nazioni non avremmo mai potuto commemorare 1’8 maggio scorso la vittoria del bene sul male in Europa. Non dimenticheremo mai – noi e i tedeschi con noi – i misfatti del nazismo. Ne perdoneremo crimini e colpevoli, dato che la remissione delle colpe incoraggia a ricadervi. Ma il passato va rievocato per promettere a noi stessi che non si ripeta più. Ciò premesso, è, tuttavia, al futuro che dobbiamo volgere lo sguardo. ào che la Germania di oggi non è più quella di ieri. Non è più esaltata da sogni di guerra. è invece rispecchiata con fedeltà da Brandt in ginocchio al ghetto di Varsavia e nelle parole – sagge, nobili, profonde – che il Presidente Weizsaecker ha pronunciato giorni fa per il 40° anniversario della fine dell’ultimo conflitto. Quelle parole riecheggiano il dramma di una Nazione divisa, ma bandiscono dal suo cuore ogni idea di vendetta e revanscismo. Dirò di più: nelle parole del Presidente tedesco-federale noi vediamo non solo la Germania che abbiamo amato ed amiamo, ma anche l’Europa. La Germania divisa è l’Europa divisa. Il suo dramma è anche nostro. Ma l’amore per la patria perduta non turba il sogno tedesco di pace, come il dolore per il lembo d’Europa da noi distaccatosi non ci indurrà ad abbracciare sogni di guerra. Noi non trascureremo la nostra sicurezza, ma non nutriremo mai intenzioni aggressive verso chicchessia, né rinunzieremo mai al dialogo e alla pace.
Il Ministro Genscher con illuminata saggezza ha àato di recente: “Noi ci impegnamo ad esaminare le possibilità di una collaborazione tra la Cee e i Paesi del Comecon. L’Europa – aggiungo io – non si ferma alla Sprea ma arriva agli Urali. Il tempo e la pace – non la guerra – daranno soluzione ai problemi e rimargineranno le ferite. Siamo convinti che, in un nuovo assetto raggiunto con la pace e con la pace mantenuto, finirà per riunirsi ciò che oggi un muro non basta a dividere. è questa la nostra “Ostpolitik”. Sarà questo il nostro modo di “uscire da Yalta”.
Analoghi intendimenti dovranno, a mio avviso, presiedere all’ulteriore processo di costruzione europea, sino al compimento del grande disegno dei Padri Fondatori. Non potrà che scaturirne un’Europa, forse non più centro di gravità del pianeta, ma neanche respinta alla periferia ed ancora capace di una partecipazione attiva e vitale alla civiltà umana. Noi italiani siamo convinti che questa Europa sarà e che il mondo offrirà alla sua nuova organizzazione politica unitaria largo spazio per rendersi utile. Anche l’ltalia, del resto, ha bisogno dell’Europa. Noi non cerchiamo nell’Europa un’identità sostitutiva alla nostra, di cui siamo orgogliosi, ma una ‘forza aggiuntiva ed un più largo spettro di possibilità e prospettive d’azione. L’Europa non contraddice, ma arricchisce la nostra storia ed il legato spirituale lasciatoci dagli avi. Insieme all’Europa e attraverso di lei anche noi troveremo nel mondo spazio e modo per agire e per spezzare il pane della civiltà con gli altri, soprattutto le vittime della sorte o degli uomini. Per difendere e diffondere i valori imperituri della condizione umana: libertà e giustizia, diritto alla vita e alla qualità della vita, rispetto per la persona, solidarietà e pace nella sicurezza per tutti e per ciascuno. Per offrire soprattutto alle generazioni future un’esistenza più degna. L’Europa, più che per noi, è per i giovani; per l’uomo europeo di domani.
Durante i miei sette anni di Presidenza della Repubblica Italiana ho ricevuto seicentomila giovani studenti di ogni età e di ogni regione d’ltalia ed anche stranieri. Non li ho mai tediati con discorsi, ma ho intrecciato con loro un dialogo aperto, sincero, come fossimo antichi amici. Guai agli anziani che mentono ai giovani!
Con le loro domande, questi giovani mi hanno con tutta franchezza espressa la loro pena: la guerra nucleare; e la loro volontà: la pace.
Hanno ragione: vogliono la pace, perche vogliono un domani di lavoro e di amore. E noi dobbiamo oggi operare perche questo giusto desiderio dei nostri giovani non sia drammaticamente deluso.
Ripeto quello detto già in altre sedi e in altre circostanze: all’ombra dei missili non avremo mai pace sicura.
Ricordo sempre il saggio avvertimento di un grande scrittore americano, Lippman: “La guerra nucleare può esplodere anche per un errato calcolo tecnico o politico”. E – soggiungo io – sarebbe la fine dell’umanità.
Ecco perche io sono per il disarmo totale e controllato. Non m’interessa se mi definiscono un illuso; m’interessa la salvezza del genere umano.
E le enormi somme di denaro che si sperperano oggi per costruire armi nucleari, che se per dannata ipotesi fossero un giorno usate, quel giorno segnerebbe la fine dell’umanità, si spendano per combattere la fame nel mondo; fame che si potrà debellare non inviando saltuariamente nelle zone dalla fame oppresse generi alimentari, ma creando in qqelle zone sorgenti di vita permanenti con la tecnologia moderna. Questo fecero i contadini italiani tanti anni fa, trasformando il deserto libico in campi fertilissimi.
Signor Presidente, cari Amici,
questo è dunque tempo di impegni. Dissipiamo il banco di nebbia che avvolge l’Europa a volte assalita dal dubbio. Non abdichiamo. Ciò che appare giusto, perseguiamolo, avvenga che può, senza paure. Anzi, con fiducia e con gioia. La stessa gioia che anima gli immortali versi di Schiller del corale beethoveniano assurto a simbolo musicale dell’Europa unita.