All’Assemblea Parlamentare del Consiglio D’Europa (Strasburgo, 27 aprile 1983)

SANDRO PERTINI

PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
DISCORSI (1978 1985)

ALL’ASSEMBLEA PARLAMENTARE DEL CONSIGLIO D’EUROPA
(Strasburgo, 27 aprile 1983)

 

Signor Presidente, Onorevoli Parlamentari,

nel prendere la parola di fronte a Voi in questo storico emiciclo che vide la presenza di insigni uomini di Stato europei – da Spaak ad Adenauer, Schumann, Churchill e Bevin sino agli italiani De Gasperi e Sforza – valuto e misuro in tutta la sua importanza l’onore riservatomi da Lei, Signor Presidente, dal Presidente del Comitato dei Ministri, da tutti gli Onorevoli Parlamentari e dal vostro Segretario Generale, al quale mi è gradita l’occasione per rivolgere un particolare saluto. Nella storia della costruzione europea, questa istituzione è, in campo politico, la figlia autentica e primigenia del movimento europeistico. Rappresenta, nella lunga giornata europea iniziatasi più di trent’anni fa e non ancora conclusa, la luce dell’alba e il raggio della speranza; la idea Europa, ansia e tormento di menti illuminate e appassionate, ha trovato qui la sua prima espressione istituzionale. Da allora, altre iniziative sono venute ad affiancarsi e ad accrescere l’impulso verso la realizzazione del grande disegno europeo; ma questa iniziativa di Strasburgo ha proseguito ferma e tenace il suo cammino sui binari tracciati e sviluppato senza pause o ritorni la sua opera paziente e preziosa. è stata ed e più che mai il grande quadro di riferimento di tutta la gamma della attività europeiste; il vasto arengo, la libera arena, l’alta tribuna per ogni dibattito europeo; il foro d’incontro, consultazione e collegamento tra le varie facce del prisma Europa. In quest’aula sono convenute, nel dopoguerra, l’Europa dei vincitori e quella dei vinti. Negli anni che seguirono, sono qui confluite, alla ricerca di una base d’intesa e di dialogo, l’Europa comunitaria e quella non comunitaria; l’Europa impegnata e quella neutrale. Da questo coagulo delle varie articolazioni europee non è scaturita una babele delle lingue. Al contrario, l’opera è stata sin dall’inizio alacre e produttiva di importantissimi risultati nei più svariati campi, com ‘è dimostrato dalle oltre cento convenzioni elaborate. L’Europa, sia pur ancora impegnata nella ricerca di una sua unità, ha trovato qui occasione, materia e slancio per gettare le fondamenta di quella che sarà la costruzione unitaria futura; e non solo per questo, ma – vorrei dire – anche per tracciare le grandi linee direttrici del suo sviluppo strutturale. è qui, in definitiva, che l’Europa ha incominciato a plasmare se stessa.

Sarebbe fuor di luogo – oltre che inutile per voi che con quest’opera avete diuturna dimestichezza – elencarne qui una ad una le tappe; descrivere i multiformi aspetti della vostra laboriosa attività. è più importante, per me e per voi, sottolineare che questi successi, che hanno contribuito a forgiare, ad uniformizzare, ad imprimere il suggello europeo a molteplici settori d’attività, gli uni a volte diversissimi e lontanissimi dagli altri – che questi risultati sono stati possibili per un motivo in fondo semplice e chiaro. L’attività di questa istituzione è stata guidata da un’unica luce, un unico faro, un’unica stella polare: quella della libertà, della giustizia, del diritto, del pluralismo e, in una parola sola, della democrazia. Questo è stato l'”animus” perenne di questi trent’anni ed oltre di vita e attività. In forza di questo spirito, l’istituzione di cui oggi ho l’onore di essere ospite ha anche avuto il coraggio di prorfunciare condanne, di separarsi – non senza dolore – da questo o quel paese membro, nella speranza – non delusa – che il tempo e le vicende avrebbero finito per render giustizia al coraggio della rinuncia. In questo emiciclo l’Europa libera, democratica, civile trova la sua più larga espressione. Se la costruzione europea è il sogno più nobile dei tempi moderni, voi tutti sapete che la diversità delle tendenze in materia ha fatto sì che l’Europa o il modo di costruirla siano anche divenuti, di frequente, occasione di divergenze, se non a volte principio di discordie. Ma in questo specchio di Strasburgo l’Europa non ha mai cessato di raffigurarsi per ciò che ha di comune: l’anelito alla libertà, l’attaccamento ai valori e ai metodi del pluralismo e della democrazia, l’affiato inesauribile e inesausto dell’uomo e del cittadino per la giustizia e per i suoi inalienabili diritti. Ho già detto che non potrei e non saprei indicare, neppur per sommi capi, i risultati dell’opera vastissima compiuta dal Consiglio d’Europa nelle sue varie istanze. Ma quel che posso e sento di dover fare è di citare, fra i molti, quelli che appaiono più significativi e che più hanno trovato eco e rispondenza nell’opinione pubblica del mio paese. In primo luogo menziono quello che a me sembra il prodotto più eccelso, che è anche il primo in ordine cronologico e che finisce per identificarsi con il massimo principio regolatore dell’attività di questo Consiglio, cui dinanzi mi riferivo. La difesa dei diritti dell’uomo è a mio avviso l’elemento più originale e caratteristico dell’operato dell’Organizzazione, che contribuisce a differenziarla da qualsiasi altra esistente, in Europa e nel mondo. La Convenzione, la Commissione, la Corte dei diritti dell’uomo – con la tutela concreta che per la prima volta offrono al singolo contro gli Stati ed il suo stesso Stato di appartenenza e con la parificazione che in tal modo attuano tra cittadino e Stato – sono un traguardo unico nella storia ed il culmine di un processo plurisecolare che affonda le sue radici nell’illuminismo e nella Rivoluzione francese. Vecchio combattente per la libertà del mio paese, io so di non esagerare quando affermo che in quest’aula non è mai mancata – ed è anzi giunta tempestiva, alta e forte – la condanna delle violazioni dei diritti dell’uomo, senza patteggiamenti o concessioni umilianti e suicide ai falsi realismi della cosidetta “ragione di stato”. Oggi, dopo le tristi esperienze subite, noi tutti sappiamo che la società contemporanea rimane sempre esposta all’attacco del “virus” totalitario. L’arco dei mezzi di persuasione e di dominio del consenso a disposizione del potere è amplissimo. Le possibilità di corruzione delle libere coscienze sono infinite. La tecnologia più raffinata consente ora l’uso della “violenza dolce e silenziosa” ai regimi oppressori più spregiudicati, laddove nell’evo antico e nell’età più prqssima funzionava la violenza bruta e l’annientamento fisico del dissenziente. Tocqueville colse questo sviluppo in una delle sue folgoranti intuizioni quando, nel primo Ottocento, scrisse che “la specie di oppressione che minaccia i popoli democratici non somiglierà a niente di ciò che l’ha preceduta nel mondo”. Noi tutti sappiamo che il funzionamento della democrazia è senza dubbio più complesso e delicato nell’attuale era tecnologica. Il processo decisionale democratico, a cagione della sua stessa ispirazione garantista, è senza dubbio più lento e faticoso e forse di minor immediata efficienza di quello costituito dalla semplice espressione di volontà del tiranno o dalla cieca obbedienza al partito unico ed al suo apparato burocratico. Da noi tutti sappiamo anche che -pur con le sue lentezze, a volte le irresolutezze ed il grande dispendio di energie – il sistema democratico presenta comunque, in termini di costi- ricavi politici ed umani, un rendimento di gran lunga superiore a quello del sistema totalitario. Certo, non è detto che la democrazia prevalga, comunque e dovunque, sul totalitarismo. A volte anzi soccombe. Per non soccombere, deve avere soprattutto il coraggio di essere se stessa. Deve difendersi, deve affermarsi, deve lottare contro i demoni con le armi che sono sue tipiche: l’onestà, l’integrità, la pulizia morale e, prima fra tutte, l’osservanza dei diritti costituzionali, anche per coloro che sono pronti a rinnegarli. Goethe insegnava: “Coraggio perduto, tutto perduto, e meglio sarebbe non essere nati”. La democrazia è soprattutto scuola di coraggio civile. L’aver affermato questi principi e provveduto ad acuire la sensibilità dei popoli europei su questi problemi eterni, in chiave moderna e di fronte alle nuove insidie dell’epoca attuale, è stato ed è il grande merito di questa istituzione. La quale ha contribuito in tal modo a far più europea l’Europa.

Tra le altre attività mi piace ricordare quel vasto affresco di conquiste sociali varato nel 1961 nella città italiana di Torino, per vari motivi legata alla storia gloriosa del movimento operaio, che è la Carta sociale europea, propaggine e completamento in campo economico e sociale della Convenzione dei diritti dell’uomo. La normativa impostata nella Carta sociale è ora in corso di approfondimento in relazione ai temi della lotta alla disoccupazione e della formazione professionale. Per l’altra iniziativa importantissima del Fondo di Ristabilimento – simbolo tangibile della solidarietà europea e strumento di tutela dei cittadini profughi, ma che ha trovato applicazione in tutti i casi di eccedenza di popolazione – vorrei permettermi di formulare l’auspicio di più ampi stanziamenti da parte degli Statì membri allo scopo di rendere più incisivi e risolutivi i suoi interventi. p .

Signor Presidente, Onorevoli Parlamentari,

già da queste schematiche indicazioni, per quanto insufficienti – ed anche a prescindere dagli innumerevoli altri importanti settori dove l’opera del Consiglio s’è avviata con slancio ed è già protesa verso l’avvenire – è possibile valutare il contributo prezioso che il Consiglio d’Europa ha dato e continuerà a dare per il raggiungimento dell’obiettivo che è a tutti noi comune: quello del consolidamento di un’identità europea e di una crescente cooperazione in Europa. Obiettivo ripeto e preciso – comune ai Dieci e agli Undici; a quella grande Europa dei Ventuno che trova qui il punto di convergenza. So che sono stati espressi da questi banchi timori che il ruolo dell’Organizzazione possa esser domani limitato o in qualche guisa offuscato dagli sviluppi della dinamica comunitaria. Timori da considerarsi a mio avviso ingiustificati. Le strade, che possono apparire ed essere diverse, i metodi, che possono sembrare e a volte sono differenziati, convergono invece verso la stessa meta, collaborano sulla base della comune matrice, che è valida per tutti. Sono contributi diversi ad un unico fine. Se è vero che nella dinamica della costruzione comunitaria – soprattutto di quella avviata nel settore della cooperazione politica, ma anche in quella della collaborazione in campo giuridico e culturale non possiamo e non dobbiamo fermarci od auto imporci dei limiti, ciò non esclude l’impegno di tutti i Paesi Cee ad utilizzare al massimo il ruolo di collegamento delle iniziative che è già nelle salde mani di questa Organizzazione. Questo ruolo anzi sarà intensificato e sollecitato ancor più da quella dinamica. Nulla esclude che quello che l’Italia ha chiamato, con formula credo felice, il “dialogo delle cose”, il rapporto pragmatico tra la comunità e le istanze di questa Organizzazione, possa svilupparsi più che mai in avvenire; e che ogni decisione assunta nelle istanze comunitarie possa essere esaminata e dibattuta, più di quanto avvenuto in passato, in seno al Consiglio d’Europa in vista di più ampi accordi e di un’applicazione estesa ad un più grande numero di Paesi.

Questo è del resto anche lo spirito dell’Atto europeo o dichiarazione solenne sull’Unione Europea, l’iniziativa lanciata dall’amico Colombo e dal Ministro Genscher che confidiamo venga approvata nel giugno prossimo a Stoccarda; e questo stesso spirito è consacrato con formule idonee nella lettera di quell’ Atto, la quale prevede – come tutti sapete – che l’impegno di coordinamento tra i Dieci egli Undici sia mantenuto e rafforzato. Da parte italiana, in particolare, l’impegno è per noi valido su due fronti, nel senso che il legame tra le due istituzioni sarà da noi stimolato e approfondito – ed ogni occasione ricercata per vivificarlo è consolidarlo – anche sul nostro stesso versante, quello comunitario e della. Cooperazione politica europea. Che non siano parole vuote, le procedure stanno a dfmostrarlo; ed anche gli intensi contatti degli ultimi tempi per rendere più seguito e fruttuoso – a livello di Ministri e di esperti – il dialogo politico all’interno di questa Organizzazione. Nuove misure per rafforzare lo scambio di informazioni e l’elaborazione di orientamenti comuni tra Paesi Cee e non Cee nel quadro del Consiglio d’Europa sono state di recente attuate. Per non fare che un esempio, imminente – se non già avvenuto – è l’incontro, a margine dell’attuale Comitato dei Ministri, fra la Presidenza della Cooperazione politica ed i rappresentanti degli Undici. In un’Europa cosciente della sua identità, quest’Assemblea, che costituisce l’unico ponte tra i Parlamenti dei paesi Cee e non Cee, non potrà quindi non continuare ad essere anche in avvenire quel fondamentale foro di dibattito delle grandi tematiche contemporanee che è stato sino ad oggi e fonte di impulsi e indicazioni preziose per il processo di costruzione europea. Strasburgo, Signori, è e resta dunque il crocevia di tutte le iniziative, l’istanza di tutte le possibilità. A Strasburgo tutto è stato discusso e continuerà ad esserlo. Le sfide dei tempi attuali, il delicato rapporto Nord-Sud, il difficile rapporto est-ovest. A questo riguardo io domando: Helsinki sarebbe stato concepibile senza Strasburgo?

Signor Presidente, Onorevoli Parlamentari,

è giunto il momento di concludere e di parlare quindi di quell’obbiettivo che tutti sovrasta, l’Europa. Ho scelto la parola obbiettivo per imprimerle il senso più concretò possibile. L’Europa, nella sua storia come idea e come prassi, è stata tutto: mito, sogno, sentimento, ideale; per qualcuno è stata ed è anche malinconia, tristezza e rimpianto di un paradiso perduto, di un’ Atene del mondo che – dopo aver dato “mondi al mondo”, dopo esser stata “civiltà di fusione tra civiltà”, dopo aver europeizzato il globo e disseminato ai quattro angoli del pianeta i suoi imperituri valori – dovrebbe ora rassegnarsi a sparire e rinunciare a rivivere mai; e dopo più avverte il senso e la urgenza della sua unità. Visione pessimistica, che fa ricordare una delle etimologie del nome Europa come “terra dell’occaso”. Anche nella sua mitologia l’Europa è stata ora ninfa oceanide, ora la soave fanciulla figlia di Agenore rapita da Zeus, come nel quadro del Veronese. Nella sua storia è stata un’incarnazione dopo l’altra: Ellade e Roma, Impero una prima ed una seconda volta, “Repubblica cristiana”, rinascimento e scoperte geografiche, riforma e controriforma, “Repubblica letteraria” e cosmopolita idoleggiata da Voltaire, rivoluzione industriale francese e proletaria, equilibrio e concerto di Stati, imperialismo ed espansione coloniale. è stata – come diceva Berle – “museo e macchina”, sacralità e laicità, religione e filosofia, arte, scienza e tecnica, mosaico di popoli, crogiuolo di razze, campo di scontro tra etnie litigiose, teatro d’invasioni, polo di migrazioni e transumanze di popoli e individui, punto di partenza per diaspore senza fine, scenario di conflitti terribili e violenze sanguinose, sul quale il buio della notte è sembrato a volte calare e la luce dello spirito offuscarsi, per l’eternità. Tragedia è la sua storia. L’Europa è stata ed è tuttora una confusione di lingue, una discordia di voci: chi vuole un tipo di Europa e chi un altro; chi ritiene che costituisca peccato imperdonabile di astrattezza contro “la carne e il sangue” delle vecchie nazioni; chi, come Jules Romains, descrive il Reno che arriva al mare “charge de nations, ses eaux charriant les frontières comme des epaves”; chi ancora ritiene le nazioni fenomeno caduco, mentre le patrie restano, e non ha fiducia in una patria europea. Per altri invece l’Europa è patria, sia pur sparsa tra le sue varie nazioni; e se queste non morranno, quella sopravviverà. Europa degli Stati, dei popoli, delle patrie: sono altrettante impostazioni diverse e in larga misura non conciliabili. Per altri addirittura l’Europa non è neanche un’espressione geografica: noi non sappiamoaffermano -ne dove comincia, ne dove finisce, se di là degli Urali e di là dell’ Atlantico. Notava sconsolato l’insigne storico italiano Chabod nella introduzione alla sua “storia dell’idea d’Europa”: “V’è un’enorme confusione che regna nella mente di coloro che pur parlano con foga e insistenza (d’Europa). Il concetto è del tutto indefinito, vago e confuso”.

Egli scriveva nel 1944. Oggi le nostre idee sono più chiare. A decantarle hanno contribuito i fatti, che – soprattutto in tema d’Europa – sono pietre ed hanno il peso dei macigni. Io, Signori, confesso che non amo indulgere a questa caccia alla definizione più appropriata, ne attardarmi in simili dilettazioni, pessimistiche od esaltanti che siano. Il mio concetto è più semplice. Per me, in quest’epoca del “mondo finito” che – ammoniva Valery – è già incominciata, dove nessun lembo di terra è più da scoprire, dove nessuno è più straniero a nessuno, dove i monti egli oceani non dividono ma uniscono e dove emergono potenze planetarie, l’universo è, si, divenuto un “villaggio elettronico” e l’Europa nulla più che un suo quartiere. Ma è anche vero che a causa di questa stessa rivoluzione dimensionale, l’Europa intendo un grande integrato spazio europeo è divenuta un’esigenza fisiologica insopprimibile, senza di che le società del continente non potranno più funzionare. L’Europa è misura, più che ottimale, necessaria. è fisiologia, quindi sopravvivenza. Con calzante espressione qualcuno ha detto che oggi è più umile, fatta più umile dalla vicenda storica, ma più simile a se stessa, quindi più unita. Nei popoli europei il senso della comune appartenenza s’è risvegliato; e con gli eventi che incalzano non potrà più riassopirsi. L’Europa dunque non è più un mito, un sogno, una stella che brilla e orienta di lontano e – direi quasi – neanche un’ideale, ma una ferrea necessità. Qualcosa che sta non fuori ma dentro di noi. è, se volete, l'”ideale necessario” dei tempi moderni; e quanto necessario sia stanno a dimostrarlo le vicende di questi giorni in tema di monete e di difesa. è il caso di aggiungere che questa necessità, cui non possiamo più sottrarci, coinvolge tutti: non solo i Dieci e gli Undici; non solo i Ventuno; ma tutti i paesi sul continente e fuori. Se non temessi di apparire riduttivo, parafraserei il detto di Croce quando osservava che “non possiamo non dirci cristiani”. Nessuno oggi non può non dirsi europeo.

L’affermazione sarebbe però riduttiva, in quanto a realizzare l’Europa necessaria non basta limitarsi ad un’attesa inerte, passiva e immobilistica. Necessità dell’Europa non significa certo che sia fatale il suo avveramento. Se a sorreggerlo non intervenisse la volontà politica, il progetto potrebbe dileguarsi nel nulla. L’Europa è anche e soprattutto fenomeno volontaristico. Ciò che siamo e saremo sarà anche dipeso in larga misura da ciò che vogliamo e vorremo. Ne l’Europa è un atto isolato di volontà, ma una serie di atti di volontà; è costruzione laboriosa; è processo lento e paziente, con i suoi alti e bassi e con le sue fasi di stanca e di rilancio. Per nostra fortuna, la storia non procede verso un giorno del giudizio finale. è un “continuum”. Per fare l’Europa, non v’è dunque altra alternativa che continuare a farla, con la volontà indispensabile per continuare a farla. Non è importante anche se auspicabile certo non è – se qualche volta siamo costretti ad abbassare il tiro od a procedere più in un settore che in un altro. La grande lezione di Monnet dimostra che “parzialismo” non coincide di necessità con “minimalismo”. L’Europa – aggiungeva Perroux “est moins un champ qu’une semence”. – L’importante è non perdere di vista la meta e non dimenticare mai – era Armand a ricordarlo – che se per Roma “Carthago delenda est”, per noi europei d’oggi “Europa construenda est”. Nei tempi eroici dell’europeismo, quando uscivamo dai lutti e dagli scempi della guerra, era possibile e più che giustificato nutrire preoccupazioni immediate di ordine in parte diverso e pensare, come De Gasperi, che “per unire l’Europa (fosse) più necessario, forse, distruggere che costruire; disfare un mondo di pregiudizi, arroganze e rancori. Quanto non è occorso – osservava ancora quel grande europeo italiano – per fare l’Italia, dove ogni città durante lunghi secoli di schiavitù aveva appreso a detestare la città vicina? Dovremo fare altrettanto per l’Europa. Scrivere, parlare, insistere. Non accordare tregua. L’Europa resti all’ordine del giorno”. Allora, egli aveva ragione.

Oggi, però, lasciati alle spalle i giorni del furore e dell’ira, colmati i fossati dell’odio, deposte le incomprensioni, l’Europa può e deve volgersi, più che ad abbattere, a costruire giorno per giorno se stessa. Nel fare se stessa, contribuirà a fare o rifare anche il mondo. L’Europa – affermava un altro grande europeo italiano, Sforza – “l’Europa è la pace”. Un nuovo assetto del mondo, idoneo a fronteggiare le sfide immani dell’epoca, sarebbe mai concepibile senza un ‘Europa unita, indipendente, libera e forte, in pace con se stessa e con i suoi vicini e amica sincera e fattiva dei popoli degli altri continenti? Di questa Europa l’Italia ha bisogno, come l’Europa ha bisogno dell’ltalia. Non v’è nulla di degradante nell’ammetterlo. AI contrario ritengo sia coraggioso e doveroso proclamarlo. Anche in quest’aula v’è stata, sin dagli inizi, pari consapevolezza della necessità, del bisogno, per i nostri Paesi, dell’Europa.

Ma non solo i nostri singoli Paesi hanno bisogno oggi dell’Europa unita. Il mondo intero ne ha bisogno. Per secoli l’Europa è stato un campo di battaglia, diventi oggi terra di pace.

Oggi la pace, Onorevoli, è basata sull’equilibrio nucleare delle due superpotenze! Ma è assurdo parlare di pace basata sull’incubo della catastrofe nucleare. Il grande giornalista americano Lippmann in un suo memorabile articolo avvertiva che la guerra nucleare può esplodere per un errato calcolo politico o per un errato calcolo tecnico.

All’ombra dei missili, Onorevoli Parlamentari, non avremo mai pace.

Non pensiamo a noi, che siamo al tramonto della nostra esistenza, pensiamo ai giovani che ci seguono, che si affacciano oggi alla vita attiva.

Ci preoccupiamo dei giovani, perche a loro vorremmo lasciare una pace sicura, che non conosca più sanguinosi tramonti.

Vorremmo che vivessero non sotto l’incubo della guerra, ma sotto la protezione della pace. I giovani hanno ragione di chiedere questo a noi anziani; hanno ragione di voler vivere la loro vita senza che essa sia turbata da minacce di una guerra nucleare, che sarebbe l’ultima, perche sarebbe la fine dell’umanità.

Noi crediamo nei giovani. Vi è una frangia che si dà alla violenza e alla droga, ma la stragrande maggioranza dei giovani è sana moralmente e politicamente. Io ho questa personale esperienza, Signori Parlamentari: tutte le mattine al Quirinale ricevo dai 500 ai 600 giovani studenti di ogni parte d’Italia. In quattro anni della mia Presidenza ne ho già ricevuti centomila. Non faccio loro alcun discorso. Ne sentono già troppi. Intreccio con loro un dialogo, mi faccio sottoporre ad un vero interrogatorio. Orbene, la domanda assillante che tutti mi fanno è questa : “Vi sarà la guerra? Il nostro avvenire sarà minacciato dalla guerra atomica?”.

A questa domanda noi dobbiamo rispondere, perche da noi, dagli anziani, da chi detiene nelle proprie mani il destino dei popoli dipende il domani della nostra gioventù. E se non vogliamo che ricada su di noi la maledizione dei giovani che hanno il diritto di vivere la loro vita in tutta la sua pienezza, dobbiamo adoperarci per il disarmo totale e controllato. Siano distrutte le armi atomiche e l’energia nucleare sia usata per far progredire l’umanità sul cammino della pace.

Noi abbiamo partecipato a due guerre mondiali: alla prima quando eravamo ancora adolescenti, alla seconda come Partigiani reduci dalle galere fasciste. Non è vero che la guerra sia “bella”, come ha declamato un poeta decadente della mia terra italica; la guerra è un mostro vorace, è l’anticiviltà. E alla barbarie non dobbiamo noi ritornare, ma volere la civiltà ove trionfi il pensiero, il lavoro, la solidarietà di tutti i popoli della terra legati ormai allo stesso destino. I giovani vogliono vivere la loro vita e non perire nell’olocausto nucleare. Noi siamo con i giovani, e finche vita sarà in noi, al loro fianco staremo per tenere lontano il mostro della guerra e per aiutarli a vivere degnamente e serenamente la loro vita, che è un bene prezioso: essa deve essere sorgente di gioia e di conquiste esaltanti in tutti i campi del sapere umano.

Prevalga l’uomo sulla bestia; prevalga la civiltà sulla barbarie. Per questo domani di pace, di fratellanza fra tutti i popoli della terra, di progresso noi abbiamo lottato tutta la nostra vita. “Nos non nobis”: sicuro, per i giovani che ci seguono abbiamo lottato e continueremo a lottare. Lotteremo perche la pace sempre trionfi; perche l’intelligenza prevalga sugli istinti bestiali; perche gli uomini si sentano tutti fratelli legati allo stesso destino; perche il più . forte sorregga il più debole e insieme comminino sulla strada della vita.

Noi accettiamo l’esortazione del grande drammaturgo Brecht: l’umanità non deve aver più bisogno di eroi, ma di uomini che, liberi per sempre dall’incubo della guerra, insieme indaghino e lavorino nel campo della scienza per fare progredire l’umanità e per far si che viva nobilmente la vita, cercando còn la scienza non di perfezionare ordigni di morte, ma di attingere le vette più alte dell’umana esistenza e rendere la vita più nobile e sempre più degna d’esser vissuta. Con questi propositi e con questa ferma volontà siamo al fianco della nostra gioventù, esortandola a lottare come ogni giorno fosse l’ultimo e come l’ultimo giorno mai dovesse sorgere.

L’Europa unita con il suo potenziale umano, storico, culturale, tecnologico può far sentire la sua positiva presenza tra le due Superpotenze, può impedire che si arrivi all’olocausto nucleare.

Ma per possedere questa forza, l’Europa deve respingere esclusioni nelle Istituzioni della Cee. Escludere, ad esempio, nazioni come la Spagna e il Portogallo dalla Cee perche turberebbero il mercato agricolo è espressione di gretto egoismo nazionalistico: è ragionare da mercanti, non da uomini politici illuminati, che debbono aver a cuore la volontà di pace dei popoli della terra. Se i popoli della terra potessero coralmente esprimere la loro volontà si esprimerebbero per la pace e chiederebbero che i 650 miliardi di dollari che oggi si spendono per le armi nucleari siano spesi per combattere la fame nel mondo.

L’Europa questo può e deve chiedere, ma per avere questo diritto deve avere anche la necessaria autorità politica che le può derivare solo dal rafforzamento delle sue istituzioni. Così, per quanto riguarda la Cee, penso che il Consiglio dei Ministri debba essere in grado di decidere a maggioranza. Così il Parlamento Europeo che si riunisce anch ‘ esso in questo emiciclo – se non si vuole che resti una Camera vuota, priva di risonanza alcuna – deve avere il potere di controllo e il potere legislativo. Solo così, superando gretti egoismi nazionalistici, si realizzerà in modo concreto l’unità europea; solo così l’Europa unita avrà la forza politica e morale di far sentire la sua voce in favore della pace; solo così l’Europa potrà cooperare in modo fattivo a liberare l’umanità dall’incubo della catastrofe nucleare e a rendere gli uomini più liberi combattendo governi che nel mondo privano i popoli dei diritti civili ed umani e che opprimono con crudeli ignobili dittature.

La libertà è in buona sostanza l’esaltazione della dignità dell’uomo. Se questa dignità viene offesa viene lesa la stessa libertà. Ecco perche noi esaìtiamo la difesa dei diritti civili ed umani. Chi viene privato di questi diritti, cessa d’essere un uomo libero e diviene vittima dell’arbitrio del potere. Chi vi parla più volte si è levato a difendere cittadini di altri Paesi privati dei diritti civili ed umani, vittime del potere e gli fu risposto che si trattava di questioni riguardanti la politica interna, non sindacabile. Risposi che il mio intervento era legittimo, perché riposava sul diritto delle genti e perche chi aveva firmato la Carta di Helsinki e la violava, doveva rispondere delle sue violazioni a tutti i controfirmatari della Carta stessa.

No, Onorevoli Parlamentari, i despoti, coloro che consumano delitti contro la dignità umana, contro i diritti civili, debbono essere messi sotto accusa dinanzi alla pubblica opinione internazionale.

Il mugnaio prussiano, che sentì leso il suo diritto da Federico il Grande, rispose con serena fierezza al sovrano: ” Vi sarà bene a Berlino un giudice, al quale potrò ricorrere in difesa del mio diritto”.

Qui a Strasburgo è costituita la Corte dei diritti dell’uomo. Essa deve avere poteri adeguati per far sentire la sua autorità a tal punto che un qualsiasi cittadino nel mondo che sente lesi i suoi diritti umani possa rispondere al despota: “Ma a Strasburgo vi saranno giudici, cui potrò ricorrere e ottenere giustizia”.

Questa difesa dei diritti umani e civili deve costituire uno dei nobili compiti dell’Europa veramente unita.

L’uomo con il suo ingegno è riuscito a spezzare la catena della legge di gravità per librarsi nel cosmo. Sappia spezzare la catena dell’egoismo per librarsi nella solidarietà umana e sentirsi fratello a tutti gli uomini della terra, fratello dei deboli, degli oppressi, degli affamati, nemico degli oppressori e degli sfruttatori. Io sono orgoglioso d’essere cittadino italiano, ma mi sento anche cittadino del mondo e quindi sono al fianco con umana solidarietà di quanti lottano contro la fame, di quanti si battono per i loro diritti civili ed umani contro la prepotenza dei tiranni.

Seguendo questi princìpi, in me profondamente radicati, Onorevoli Parlamentari, vi ho parlato senza infingimenti. Sono stato sincero con me stesso per esserlo con voi.

Il vecchio Polonio al figlio Laerte in partenza per Londra dice “Figlio, sii sempre sincero con te stesso e come dalla notte sorge l’alba sarai sincero con gli altri”.

Così ho fatto io con voi. Naturalmente mi sarò creato degli avversari; ma “amicus Plato, sed magis amica veritas”.

E la verità in cui credo – e per cui ho pagato nella mia tormentata vita alti prezzi – è stata e sarà sempre la mia stella polare e per essa continuerò a battermi sino all’ultimo mio respiro costi quel che costi alla mia persona.

Ai giovani questo desidero dire: “Siate sempre uomini in piedi, padroni dei vostri sentimenti e dei vostri pensieri e mai servitori in ginocchio”.

Chi tradisce la verità tradisce se stesso e meglio sarebbe che non fosse nato. E questa fiaccola della libertà, della fratellanza e della pace noi anziani, che siamo al termine della nostra giornata, ci apprestiamo a consegnare “uti cursores” a voi, giovani, perché la portiate sempre più avanti e sempre più in alto; ma finché alito di vita sarà in noi saremo al vostro fianco e con voi ci batteremo contro la guerra e per la pace; contro la tirannide e per la libertà.

E scenda pure su di noi la notte che non conoscerà più albe: vi andremo incontro con animo sereno, consapevoli di aver sempre compiuto sino all’ultimo il nostro dovere di uomini liberi.

****