Relazione: “Piero Gobetti oggi. Sogno paradossale o stimolo al cambiamento?” (23/04/2004 – S. Labonia)
PIERO GOBETTI oggi
Sogno paradossale o stimolo al cambiamento?
Conferenza tenuta da Sergio LABONIA, del Centro Sandro Pertini, presso l’A.S.I.S.
Roma il 23 Aprile 2004
Perché Gobetti.
Stiamo attraversando un momento storico in cui le ideologie sembrano superate; l’individuo è sempre più alla ricerca di una coscienza sociale che non è più quella religiosa, dogmatica ed indiscutibile del credo assoluto (Freud direbbe “della madre”), ma di una speranza trasversale dove trovare ciascuno la propria identità e, nello stesso tempo, la propria appartenenza ad un determinato contesto sociale di riferimento. Una ricerca laica, quindi, più globalizzante della fede in un’idea, dove tutte le realtà possono essere portatrici di stimoli nuovi e dove non esistono aprioristicamente delle preclusioni o, al contrario, delle prese di posizione che non tengano conto di qualsiasi istanza utile per una civile e serena convivenza.
A mio avviso, in questo contesto, la laicità e l’antifascismo di Gobetti ne fanno una figura emblematicamente attuale, pur con le sue contraddizioni, avendo anticipato la realtà dei giorni nostri, con l’intransigenza e l’onestà intellettuale, vissute in un contesto tumultuoso, ricco di avvenimenti, che gli fecero intravedere, paradossalmente, nei consigli di fabbrica, l’unico movimento laico in grado di determinare il cambiamento necessario alle vecchie strutture, tanto deludenti per la loro incapacità di progredire sulla strada di una conversione profonda della società.
Piero Gobetti nasce a Torino il 19 giugno 1901 da una famiglia di commercianti e muore esule a Parigi nella notte tra il 15 ed il 16 febbraio 1926, non ancora venticinquenne. Alto e sottile, capelli lunghi e arruffati dai riflessi rossi. Ebbe come “padre spirituale” Gaetano Salvemini, uno degli ispiratori della sinistra liberal-democratica, che, abbandonato il PSI nel 1921, nel ’25 dette vita, con i fratelli Rosselli, al periodico “Non mollare”, aderendo poi a Giustizia e Libertà, che tanto ereditò dal pensiero gobettiano; sua “madre intellettuale” fu Giuliano Balbino, gentiliano, professore di filosofia al liceo.
Fu proprio tramite il Balbino che Gobetti conobbe il pensiero del padre intellettuale della rivoluzione dei primi decenni del ‘900, condividendone, con Gramsci, “la critica demolitrice del neoidealismo contro il positivismo”. Proprio in questi giorni è uscito un saggio su “Nuova Storia Contemporanea” in cui Giuseppe Bedeschi evidenzia l’influenza che ebbe il filosofo su Gobetti (e Gramsci) percorrendo la strada che, dall’iniziale “innamoramento” per avere egli portato la filosofia “dalle astruserie professionali nell’immensa concretezza della vita”, tanto da sollecitare “tutta la nuova generazione” ad ispirarsi “al suo pensiero per rinnovarsi”, lo porta, con l’avvento del fascismo e delle sue scelte, a disconoscerne addirittura qualsiasi approccio.
Gentile ritenne Marx con la sua filosofia della prassi, un pensatore dialettico che negava qualunque naturalismo, al contrario di Croce che non riconosceva nel pensiero dello stesso alcun riferimento filosofico ma piuttosto una “concezione realistica della storia”. Naturalmente Gobetti (con Gramsci) era più d’accordo con il primo giudizio, paragonando Gentile a Platone e Croce a Socrate
Ma cosa può aver fatto e detto un individuo in età apparentemente acerba per avere oggi, a circa 80 anni dalla Sua scomparsa, un’eco politica così stimolante, tanto da diventare non solo attuale, ma degno di approfondimento culturale ? Si affaccia alla vita ancora adolescente, nel secondo decennio del ‘900, nel periodo così detto “di transizione”, fatto di patti e di intese (la “triplice alleanza”, tra Germania, Austria e Italia, e “la triplice intesa” tra Gran Bretagna, Francia e Russia) che fecero sperare in una pace duratura ma che, invece, portarono ineluttabilmente alla prima guerra mondiale.Questo decennio fu segnato anche da due rivoluzioni: quella russa, dove Lenin prese il potere ed affermò il pensiero marxista e la rivoluzione proletaria, e quella messicana.
Agli albori del terzo decennio cominciarono le occupazioni delle fabbriche nel nord dell’Italia, il grande sciopero a Torino degli operai metallurgici, la riconversione industriale, l’indipendenza irlandese, l’ascesa di Hitler alla guida del Partito operaio tedesco (poi divenuto Partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi), i primi anni del Fascismo, che lo osteggiò fino a farlo morire esule in Francia: E’ indubbio che furono circa 15 anni di estremo sconvolgimento sociale, culturale e politico ai quali non si poteva assistere passivamente, volenti o nolenti. Epoca in cui risoluzioni e riflessioni nuove si imponevano per ricercare le motivazioni di tanti fatti contrastanti per poi trovare, o tentare di trovare, le ricette migliori
A parte le doti intellettive ed organizzative fisiologiche di Gobetti, che fecero dire a Bobbio: “il nostro enfant prodige”, ad altri: “giovane maestro di giovani” ed a Gramsci: “organizzatore di cultura di straordinario valore” (in otto anni fondò tre riviste e pubblicò cento libri), questo “teorico di una interpretazione progressista del liberismo”, sommò, alle doti già citate, la perseveranza e la infaticabilità per proporre, in un confronto serrato con chi fosse disponibile, anche se politicamente distante (come lo stesso Gramsci, a cui lo legava una profonda amicizia), quelle idee alle quali ha creduto fino alla morte ed alle quali tentiamo di dare una lettura attuale.
Quale paradosso più eclatante di una “rivoluzione liberale” in un periodo in cui socialismo e liberalismo, con il centralismo e la socializzazione dei mezzi di produzione il primo e l’affermazione della proprietà privata il secondo, erano, ed in parte lo sono ancora, due concetti così estremamente distanti, tanto da non essere in grado di intravedere una base comune così’ forte, come la libertà, che rappresenta il credo comune di ogni individuo raziocinante? A proposito di libertà mi sembra doveroso ricordare Voltair: “Dico al mio avversario: io combatto la tua idea che è contraria alla mia, ma sono pronto a battermi sino al prezzo della mia vita perché tu, la tua idea, possa esprimerla sempre liberamente”. O il più moderno Sandro Pertini: “La libertà, senza la giustizia sociale e leggi giuste, è fragile e si risolverebbe per molti nella libertà di morire di fame. Lottare per il diritto, la giustizia e la libertà è lottare per la democrazia, per le proprie idee e per i propri principi, per l’avvenire di tutti e di ciascuno”.
A 18 anni Gobetti fondò e diresse il periodico “Energie Nuove”, tanto apprezzato da Salvemini, a cui collaborarono Croce, Gentile, De Ruggiero, Mondolfo, Einaudi, suo professore all’Università di Torino al quale fece trasformare, per le sue doti di “leader”, il modo di insegnare Economia, e che di lui sottolineò: “La sua straordinaria capacità di coinvolgere i giovani nello sviluppare progetti culturali alternativi”, ricordato come “metodo Gobetti”. Dalle pagine di questa rivista non nasconde le sue simpatie per il PSI e per Salvemini. La sua personalità attirò l’attenzione, tra gli altri, di Carlo Levi che lo volle conoscere, non pensando di “trovarsi di fronte un ragazzo come lui” ( Levi nacque a Torino nel 1902, un anno dopo Gobetti).
Nello stesso anno 1919, sempre sotto il suo impulso, sorge, sul piano operativo, la “Lega democratica per il rinnovamento della politica nazionale” che aveva nel programma: la riforma elettorale (nel senso proporzionale), il voto alle donne e la riforma amministrativa .
Intanto maturarono le sue pregiudiziali antisocialiste e l’idea del valore liberatorio che ebbero, per il popolo russo, l’ottobre e l’azione bolscevica, stupito per il lavoro costruttivo dell’opera di Lenin ed ammirato per quella di Trockij.
Ritengo sia questo il tormento intimo di Gobetti, il suo sogno paradossale: antimperialista ed antistatalista convinto, considera la rivoluzione, espressa in un contesto statalista e dirigista, l’unico mezzo per giungere allo scopo liberale: lo sviluppo autonomo delle iniziative private.
Sotto questo aspetto, la sua posizione critica nei confronti di Gentile, Turati ed i riformisti va vista come una sorta di provocazione. Infatti, Gobetti non critica le loro idee ma la incapacità di agire in modo determinato per raggiungere lo scopo, che non era certo quello marxista. Il Gobetti si innamorò della rivoluzione russa di Lenin e Trockij solo per l’azione, l'”eroe” che mancò al Risorgimento italiano.
Nel settembre del 1920, in uno scritto ad Ada Prospero, Gobetti trasferisce sul movimento operaio nascente la possibilità di effettuare una vera rivoluzione laica, non per la realizzazione del collettivismo, ma per costruire una società basata su “una organizzazione del lavoro in cui gli operai, o almeno i migliori di essi (l’élite) siano quel che sono gli industriali” (operaismo liberale). Nel 1921 Gramsci gli affida la critica teatrale e una collaborazione letteraria su “Ordine Nuovo”, cosa che determinò il definitivo distacco da Salvemini. Intanto collabora anche con vari quotidiano e periodici.
Presta servizio militare a Torino. Definendo la caserma come “l’antitesi del pensiero”, organizza un “istituto di politica superiore e di propaganda civile”, frequentato dallo stesso Comandante e dagli altri ufficiali.
A 21 anni , fondò il settimanale “Rivoluzione Liberale” a cui collaborano, tra l’altro, Amendola, Pareto, Mosca, Missiroli, Einaudi, Rosselli, Rossi, Basso, Levi, Russo, Lussu, Montale, Morandi e Malaparte.
Successivamente, a 23 anni, fondò il periodico di cultura liberale “Il Baretti”, sul quale scrissero Croce, Sapegno, Montale, ,Debenedetti, Saba, Salvemini. Il “Baretti” rappresentò una palestra di riserva, meno impegnata, più nascosta di “Rivoluzione Liberale”.
Nel 1923 sposa Ada Marchesini Prospero, dolce compagna di tante battaglie già dalla fondazione di “Energie Nuove”. Dalla loro unione nasce il figlio Paolo. Di ritorno dal viaggio di nozze, il 6 febbraio 1923, viene arrestato per “appartenenza a gruppi sovversivi che complottano contro lo Stato”; rilasciato dopo 5 giorni viene ancora fermato per 24 ore il 29 maggio del 1923. Intellettualmente i suoi riferimenti furono: Vittorio Alfieri (“il più generoso esempio di resistenza intellettuale attiva contro le oppressioni politiche”, “il primo uomo nuovo”) e Casorati, per la sua pittura innovativa.
Come editore pubblicò, tra gli altri, lavori di Giovanni Amendola, Luigi Sturzo, Eugenio Montale (“Ossi di seppia”) e Luigi Einaudi. Come autore ricordo: “La filosofia politica di Vittorio Alfieri” (1923), la sua tesi di laurea; “La frusta teatrale” (1923); “La rivoluzione liberale” (1924); “Risorgimento senza eroi” (1926 postumo); “Paradosso dello spirito russo” (1926 postumo); Scritti politici” (1960 postumo).
Per seguire un percorso logico dell’idea gobettiana dobbiamo partire da “Risorgimento senza eroi” dove il nostro Autore pone come “centro di osservazione” il Piemonte, la sua storia, i suoi costumi ed i suoi sentimenti. Gobetti non contesta il Risorgimento perché portò alla conquista del potere la casa reale, come sosteneva la tradizione repubblicana, né per la mancata rivoluzione sociale, secondo Gramsci, ma per la assenza di iniziativa spirituale e politica: l'”eroe”, per l’appunto, che doveva essere l'”azione”, tema fondamentale del pensiero gobettiano. Per questo lo troviamo vicino a Lenin ed alle occupazioni delle fabbriche da parte delle masse operaie, perché agirono in modo autenticamente laico.
A proposito della laicità, Gobetti si riallaccia all’opera di Vittorio Alfieri e degli eretici piemontesi, perché anticattolici ma religiosi e politici nello stesso tempo; per lui “un uomo che rimane cattolico” per via del Papa e dell’inquisizione è “ignorantissimo, servissimo e stupidissimo”, perchè non si può essere cattolici e liberi nello stesso tempo. Il Risorgimento, secondo Gobetti, mancò anche di una riforma profonda come quella protestante (“religione di libertà”).
Da questa disamina Gobetti era convinto che il solo Cavour fosse stato capace di interpretare le contraddizioni, le energie e le soluzioni del vecchio e del nuovo Piemonte.
“Paradosso dello spirito russo” è un altro passaggio importante dell’idea gobettiana, spesso interpretata strumentalmente ma chiarissima nel porre dei paletti irremovibili al suo credo liberale. Questo lavoro rappresenta il libro più russo che sia stato scritto nella nostra lingua. Impegnò Gobetti nello studio del cirillico e della storia russa. E’ un momento letterario rarissimo che dà al libro una preziosità culturale di ampio spessore.
Il libro è formato da due parti: La lotta delle idee e La letteratura. Una III^ parte del libro (scritti sulla letteratura e sulla rivoluzione russa) potrebbe essere definita “Una teoria liberale della rivoluzione bolscevica”. “L’esperimento marxista in Russia è fallito”, dice Gobetti, “le vecchie obiezioni dell’economia liberale sono più ferme che mai contro tutti i fautori delle statizzazioni: il bolscevismo ne è un’altra prova”. L’opera di Lenin e Trotckij è vista come “la negazione del socialismo e un’affermazione del liberalismo”. (momento ideologico e critico del libro). Questo è per Gobetti il “paradosso”: la rivoluzione considerata come terreno di verifica sperimentale di idee politiche più generali e non fini a se stesse.
Per Leo Valiani, il “paradosso” era proprio lui, Gobetti, che credeva nella liberalizzazione della Russia attraverso l’astuzia della ragione del marxismo, rappresentato da Trotckij. Premesso questo, passare a “La rivoluzione liberale – Saggio sulla lotta politica in Italia” è una conseguenza logica. Infatti, originariamente, i due scritti precedenti facevano parte di questo. Il libro (la cui prima uscita data 18 marzo 1924 – Ed. Cappelli) si compone di quattro parti: L’eredità del Risorgimento, La lotta politica in Italia, Critica liberale e Il fascismo.
Il Risorgimento viene definito, come visto in precedenza, una rivoluzione mancata, in quanto non ci furono le “energie direttrici, le aristocrazie capaci di interpretare i fermenti e di rafforzarlo, né una riforma religiosa come quella protestante. Sopravvissero le vecchie “élite” e le nuove ne evidenziarono l’impreparazione”. Non fu sfruttata “la possibilità di una nuova economia che risolvesse finalmente l’antinomia insolubile della politica economica italiana: protezionismo-liberalismo. Il consiglio di fabbrica poteva essere il punto di partenza di una economia nuova”, convinto che “il nuovo liberismo deve coincidere in Italia con la rivoluzione operaia per offrire le prime garanzie e le prime forze di uno sviluppo autonomo delle iniziative”.
Nel passare poi in disamina le conformazioni politiche, Gobetti è critico con Gentile perchè lo vedeva confondere il liberalismo con l’arte del governo e con “l’assenza più desolante di ogni generosa passione per la libertà. Per Gentile la politica liberale si doveva fare dall’alto e pertanto: “. . . la giustificazione e l’interpretazione date dal Gentile del suo liberalismo coincidono con la morale della tirannide e il problema della libertà viene dimenticato. . . ” Insomma, Gobetti sprona i liberali ad individuare e combattere i loro nemici eterni contro la libertà, denunciando la immaturità democratica del liberismo gentiliano perché indirizzata solo nel senso conservatore non tenendo conto del movimento operaio ma dello spirito piccolo-borghese dei socialisti. Della stessa opinione è Bobbio che ha considerato il liberismo di Gentile un liberismo di maniera, chiuso in una realtà che non andava oltre gli scrittori politici del Risorgimento e che liquidò il socialismo come manifestazione di materialismo.
Ai socialisti rimprovera di non avere mantenuto le premesse rivoluzionarie; costretti ad inserirsi nella realtà pratica (“inquinati da elementi di ceti borghesi e contadini, desiderosi di miglioramenti economici, privi di preparazione politica e di volontà liberatoria”), persero qualsiasi impulso alla intransigenza, mostrandosi “tragicamente” indecisi perché ciechi alla corruzione e preoccupati di mantenere in vita le cooperative. Per le sue propensioni ideologiche si sente più vicino a Salvemini che a Turati, denunciando l’incertezza di Serrati, colpevole di avere disorganizzato, definitivamente, nel 1921 a Livorno le forze popolari che poi andarono a fondare il PCI.
Per quanto attiene ai comunisti il suo riferimento non poteva che andare ad Antonio Gramsci, al quale la figura di Lenin “appariva come una volontà eroica di liberazione”, ma li criticò perché non seppero far nascere i capi della rivoluzione e della post-rivoluzione. Il Gobetti insiste che la via maestra della lotta politica futura è solo quella del valore liberistico del movimento operaio, dove veniva affrontato il problema del risparmio dell’industria, quale parte spetti alla produzione e quale agli imprenditori.
Il PCI, secondo Gobetti, si formò per l’incapacità di una azione realizzatrice e per l’elefantiasi burocratica del PSI, e lo considerò come una sorta di organismo artificiale, cresciuto in regime protezionista, con i suoi ideali di rivoluzione liberatrice contro la burocrazia borghese, con iniziative astratte non commisurate e controllate dalla effettiva partecipazione delle masse, perché la caratteristica burocratica è contraria ai principi rivoluzionari. Lo critica anche per l’organizzazione capillare che si voleva dare (una sezione per ogni comune) senza rendersi conto che “un partito rivoluzionario deve fondarsi sulle forze e non sugli uffici”.
Citando Sicchi, Gobetti fa una riflessione che troviamo ai giorni nostri in un film con l’attore Villaggio, a proposito dei “cineforum” ed in particolare del film “La corazzata Potionkin”: “. . . per un malinteso ossequio alla Terza Internazionale antologie noiosissime di scritti di Bucarin e Zinoviev comportarono la chiusura del PCI in piccolo gruppi dove dominava un’atmosfera romantica intollerante e intollerabile, uno spirito di setta, arido e dissolvente”. Sul piano giornalistico Gobetti criticò la nascita del “Lavoratore” a Trieste e “Il comunista” a Roma, testate che non avevano nulla a che fare con “Ordine Nuovo” e che divisero praticamente l’Italia in tre, con l’invio di Togliatti a Roma e Pastore a Trieste.
Il Partito Nazionalista Gobetti lo vede un po’ come “il fratellino del vecchio Partito Repubblicano, prodotto romagnolo, un “capriccio” di studenti e professori, “malattie di infanzia” che si ritrovano e si spengono tutt’e due nel fascismo”. Lo giudica completamente negativo in quanto “in venti anni di dottrina e quindici di azione” ha lasciato un solo insegnamento: l’impresa libica.
Il Partito Repubblicano, insieme al “fratellino” Nazionalista, creò le leghe d’azione antitedesche ed esasperò la campagna contro Giolitti (“uno degli indici più sconsolanti della nostra immaturità durante la guerra”). La “banale” campagna moralizzatrice fu l’unica risorsa per decenni ed identificò la lotta politica con la lotta all’uomo e le accuse di disonestà pratica. Gobetti definì i repubblicani complici, in Romagna, della reazione fascista. Solo per volontà di qualche volenteroso (che Gobetti individuò in Zuccarini, Conti, Schiavetti e Bergamo) fu determinata la necessità di un orientamento rivoluzionario. Ma, mancando il movimento operaio, tutta questa opera si tramutò in un mero compito di critica e di eresia d’avanguardia.
Il dottrinarismo mazziniano è considerato da Gobetti inadeguato, per la completa assenza di cognizioni economiche. Le idee fisse di Mazzini furono la cooperazione e la piccola proprietà, senza connessioni con l’economia moderna e senza avvertire che la cooperazione, come sistema produttivo, tende a diventare parassitario e la piccola proprietà floridissima.
Gobetti è d’accordo con i repubblicani solo per quanto riguarda il fascismo ma li critica per la loro contraddizione tra le nostalgie rivoluzionarie che li avvicinano agli operai ed il fanatismo per la piccola proprietà che li accosta ai contadini.
Nell’affrontare la critica liberale pone come presupposto metodologico il disconoscimento dei dogmi e delle semplificazioni astratte. Il liberalismo, dice, è indice di maturità storica, un segno di aristocrazia del sapere ed una raffinata diplomazia dei rapporti sociali, contrario alla politica dei competenti perché interessati, la politica deve essere disinteresse dell’uomo di governo di fronte al popolo (esso sì, interessato), e vede nel liberismo lo strumento infallibile della formazione di nuove “élite”, la vera leva del rinnovamento popolare. Riguardo alla lotta di classe, Gobetti è convinto che essa “affina il senso dell’economia borghese e della proprietà privata, promuove nel cittadino la coscienza di produttore, come capitalista, come tecnico, come operaio”; pertanto uno Stato senza classi, o con una sola classe, è immobile, inadeguato al progresso.
Relativamente alla politica ecclesiastica il Gobetti era convinto che “lo Stato non professa un’etica, ma esercita un’azione politica. Non rinuncia di fronte a nessuna Chiesa, ma non ha bisogno di combatterla come concorrente. Il potere temporale è morto”. Per Gobetti esistono due problemi di politica ecclesiale: i rapporti tra Vaticano e Stato e l’esistenza di uno spirito cattolico tra i cittadini e plaude al Partito Popolare (Luigi Sturzo) che ha allontanato lo spauracchio del clericalismo nel modo migliore, dal suo interno, come è d’accordo con Cavour, secondo cui “i rapporti tra Stato e Chiesa si potranno migliorare solo se si manterrà la pregiudiziale della laicità”.
Gobetti affronta anche la riforma del sistema elettorale, vedendo nell’uninominale una sorta di aristocrazia della classe politica adatta a “chi è pago di eleggere il deputato ed incapace di controllarlo”. Il sistema proporzionale era più consono perché capace di creare le condizioni della lotta politica e del normale svolgimento dell’opera dei partiti.
In termini di Pubblica Amministrazione il Gobetti sperava in un sistema dove l’economista è preposto solo allo studio del fenomeno sul campo per dare poi al politico i risultati da adeguare con le varie forze dell’equilibrio sociale. Ma il vero problema da risolvere non è tanto quello detto, nè quello dei pareggi di bilancio tra esigenze e disponibilità, quanto la “grave” questione della coscienza tributaria. In Italia il contribuente non si è mai sentito partecipe della vita statale, paga (l’imposta imposta) “bestemmiando” lo Stato, cosciente di non esercitare una funzione sovrana.
Rispetto alla burocrazia è molto pessimista considerando il problema “non più solubile”, perchè il sistema ha trasformato gli italiani in impiegati. In politica internazionale, il Gobetti rivolge la sua attenzione all’America e al Giappone e alle pressioni dell’India sull’Inghilterra, con Russia, Germania e Italia in crisi di depressione e America e Inghilterra in crisi di eccesso. Per quanto attiene alla situazione italiana la vedeva propensa a sognare avventure tripoline o pensare alle tradizioni romane, e, pertanto, negata a qualunque politica estera efficace.
In parte sbagliò, per gli stessi motivi di carattere temporale che lo fecero sbagliare sul PCI (morì prima dell’evoluzione dei due fenomeni), nel prevedere che il fascismo si fosse risolto in un pacifismo imbelle e astensionista per la sua incapacità di educare gli italiani alla responsabilità. Riguardo alla guerra ed alla pace Gobetti cita il Machiavelli per affermare che nella civiltà moderna la guerra per la pace diventa una legge di sviluppo dei popoli (“Ciascuno d’essi faccia volentieri la guerra per avere pace e non cerchi di turbare la pace per avere guerra”).
Per quanto attiene all’educazione scolastica, Gobetti non poteva che auspicarne la sua libertà di espressione in quanto solo uno Stato teocratico può concepire il monopolio scolastico; uno Stato per essere moderno deve fare propria la morale dei cittadini, e creare una scuola aderente alle loro esigenze, da fondere con la cultura e la vita dei cittadini stessi assumendone solo una funzione di controllo, non deve “allevare impiegati”. Una scuola, “non enciclopedica ma educativa”, non come quella reazionaria riformata da Gentile, che non è già più il filosofo stimato nel periodo prefascista.
La scuola, secondo Gobetti, deve fondarsi su due ordini: elementare e media. Quella elementare deve combattere l’analfabetismo, mobilitare tutte le forze nazionali e risolvere il problema del Mezzogiorno (anche in funzione dell’emigrazione), quella media, invece, deve attendere alla formazione dei maestri (da limitare nel numero, con pochi posti a concorso), essere fornita da iniziative private e creare una situazione rivoluzionaria, con l’abolizione di titoli e lauree.
Il problema dei costi si sarebbe risolto sfollando gli istituti, aumentando le tasse scolastiche ed eliminando il parassitismo dei professori, riducendone gli stipendi.
Successivamente Gobetti affronta il fascismo con una affermazione: “il nostro antifascismo prima che una ideologia un istinto”, ripetendo, in pratica, la sua idea di fondo già esposta nel ’22 in “Elogio della ghigliottina”: “La nostra opposizione è così intransigente che ci rifiutiamo di esaminare i programmi e di collaborare colla critica”.
A proposito dell’intransigenza, risulta fondamentale il distinguo gobettiano, così come richiamato da Bobbio, tra la transigenza, riferita ai principi, e la tolleranza, riferita all’educazione. Per Gobetti si può essere tolleranti ma non transigenti, principio che caratterizzerà tutta la sua vita. Il fascismo è visto da Gobetti come l’autobiografia dell’Italia: “affonda le sue radici nei limiti e nelle debolezze, negli errori politici e nei lassismi morali”. Questo antifascismo viscerale, totale, lo fa allontanare anche da Prezzolini che, a sua volta, lo considerò illuso delle sue simpatie verso i comunisti “che appena saranno al potere diventeranno ancor meno liberali di Mussolini”.
Per Gobetti, Mussolini è l’eroe rappresentativo della stanchezza italica, dell’aspirazione al riposo. Il suo ottimismo, l’amore per il successo,, la virtù della mistificazione, le astuzie oratorie e l’enfasi sono bene accettati dagli italiani. Gli manca il senso dell’ironia, non comprende la storia (se non per i miti), gli sfugge l’attività creativa.
Più grave del fascismo fu il mussolinismo che denotò la tendenza cortigiana del popolo, lo scarso senso di responsabilità, la propria salvezza riposta sul duce. Ecco perché Gobetti si scaglia contro chi non ha impedito, con la propria inazione, la concretizzazione di una realtà endemica del tessuto politico, istituzionale e dei partiti dell’epoca. Questa “delusione” rispetto alle sue aspettative ideali lo fa essere particolarmente critico sia col liberale Giolitti che col socialista Turati.
Il 5 settembre 1924, successivamente al delitto Matteotti, che tanto lo colpì moralmente, fu aggredito sulle scale di casa da quattro squadristi che gli procurarono gravi ferite dopo che Mussolini aveva impartito l’ordine al Prefetto di Torino di “rendere la vita impossibile all’insulso Gobetti”. Di questo episodio esternarono la propria solidarietà solo alcuni socialisti e comunisti, qualche gruppo culturale o personalità singola, come Benedetto Croce. Dopo l’aggressione gli scompensi cardiaci di cui soffriva si aggravarono, costringendolo ad un lungo periodo di riposo.
Nel 1925 si susseguirono i sequestri della “Rivoluzione liberale”, del “Baretti” e dei quotidiani non allineati. Le aggressione furono all’ordine del giorno, cominciarono gli espatrii, tra i quali quelli di Amendola, Salvemini, Nitti e Don Sturzo.
Gobetti capisce che in Italia non c’è più spazio per la libertà ma non demorde. Pur abbandonando le molte iniziative editoriali, fra cui quella del “Baretti”, decise di lasciare la moglie ed il figlio a Torino per raggiungere Parigi dove continuare la lotta per la sua “Rivoluzione” e contro il fascismo con iniziative editoriali a livello europeo.
Parte da Torino il 3 febbraio e raggiunge Parigi, dove viene però colpito da una grave forma di broncopolmonite. Ricoverato urgentemente in ospedale, la notte tra il 15 ed il 16 febbraio muore assistito da Giuseppe Prezzolini, Francesco Nitti e Luigi Emery. Fu sepolto nel cimitero di Père Lachaise, dove ancora oggi riposa. Per concludere, ritengo che il paradosso gobettiano sia quello di avere considerato la rivoluzione da un punto di vista liberale (che presume una società conflittuale e quindi dinamica), e non marxista (che parte dalla lotta di classe per la costruzione di una società integrata, senza conflitti, senza classi: ferma), considerandola come terreno di verifica sperimentale di idee politiche più generali, non fini a se stesse, e di avere valutato il paradosso russo come una teoria liberale della rivoluzione. Dato l’assunto concettualmente errato e considerata l’intelligenza ed il credo che Gobetti ha sempre manifestato, il suo paradosso appare più una provocazione che un’affermazione, in quanto lui stesso confermò che “le vecchie obiezioni dell’economia liberale sono più ferme che mai contro tutti i fautori delle statizzazioni”.
Ma allora, se la sua rivoluzione non era l’abbattimento di un potere e l’instaurazione di un altro, ma un passaggio obbligato per la sostituzione di una classe politica incapace di portare avanti l’economia e lo sviluppo autonomo delle iniziative, oggi ci troviamo non solo con un Risorgimento ma anche con una Resistenza senza eroi, pur se con una guerra mondiale ed una di liberazione dal nazismo in più. E’ vero la Resistenza non è paragonabile al Risorgimento, sia come contesto storico che politico, ma è pur vero che il post-Resistenza, la ricostruzione, poteva dare frutti migliori che non quelli attuali. Salvo che per la democrazia, grazie soprattutto all’intervento anglo-americano contro il nazismo, non abbiamo assistito a grosse evoluzioni sul piano politico nel senso strettamente democratico. Quel sogno di Gobetti di ottant’anni fa era proprio un sogno paradossale, irrealizzabile? Irrealizzato sicuramente sì.
Per pervenire al cambiamento di uomini e strutture in nome della libertà, il messaggio che ci giunge è quello dell’azione. Per libertà si intende, ovviamente, quella estendibile, quella di coscienza, quella che non lede la libertà altrui, non certo quella, spesso agita, non estendibile, quella di parola, che se male usata può limitare la libertà altrui, divenendo inopinatamente un mezzo letale , foriera di un vero e proprio liberticidio.
I fratelli Rosselli ed altri fuorusciti, fondatori del movimento “Giustizia e Libertà”, raccogliendo l’invito gobettiano, lottarono fino alla morte per il raggiungimento di tali obiettivi, ma i tempi storici non ne permisero la realizzazione immediata. La possibilità si ripresentò nel 1942 con il Partito d’Azione, ma anche qui interessi ideologici e problemi contingenti di un tragico dopoguerra fecero svanire questo anelito culturalmente italiano che a distanza di un secolo è ancora così originale.
Come dicevo all’inizio, e concludo, le posizioni politiche, prima tanto distanti, oggi le ritroviamo molto più vicine: la filosofia socialista è meno dirigista e statalista e quella liberale meno elitaria, con maggiori attenzioni per il sociale, ma con un credo univoco ed inalienabile: la libertà. Mettendo sullo stesso piano, per dirla con Bobbio, fini e mezzi, i primi di cultura socialista, i secondi di cultura liberale si delinea una strada interessante da percorrere come “combattenti della libertà”, quelli che Gobetti tentò di individuare nei consigli di fabbrica, cioè come forze di azione laica, indispensabili per raggiungere il traguardo di una società volta allo sviluppo autonomo delle iniziative e dove ogni cittadino sia reso libero dal bisogno.
Ho potuto effettuare questa esposizione grazie ai contributi di Franco Venturi (in Risorgimento senza eroi), Vittorio Strada (in Paradosso dello spirito russo), Paolo Spriano (in La Rivoluzione Liberale), Giancarlo Bergami (per Guida bibliografica degli scritti su Piero Gobetti), Giovanni Spadolini, Valerio Zanone (per Albo di familia), Norberto Bobbio, Cesare Pianciola, Franco Abruzzo, Michelangelo Bovero, Piero Ostellino, Stefano Bucci, Vincenzo Ferrari, Gian Luigi Falabrino, Leo Valiani, Giuseppe Bedeschi e tanti altri che comunque hanno ricordato Piero Gobetti..
Sergio Labonia